Possiamo legare le sei canzoni del disco in tre coppie. La prima: l'influenza jazz-folk, il legame con il passato (del Buckley folksinger) e il presente (del Miles Davis di Kind of Blue). In Strange feelin' l'influenza jazz è spiccata, ma tuttavia annacquata nello spleen. Spleen che si ripresentera più tardi in maniera ancora più massiccia, e che qui trova le sue prime avvisaglie.
I got this strange feelin’ deep down my heart/ I can’t tell what it is/ but it won’t let go/ it happens every time/ I give you more than what I have/ but now all I need is a little time to sing this song/ and I think we’re gonna find a way to lose this strange feelin’
Buzzin' fly, ritmata e spensierata, si allaccia fortemente al passato folk di Buckley, con chitarra e vibrafono in evidenza. Ma oltre a riallacciarsi al passato lancia la sfida al futuro: potremmo parlare di sublimazione dell'esteriorita folk, utilizzo di materiale folk (filtrato da jazz e funk) in una forma estesa e lanciata verso il futuro (ed anche verso la seconda parte del disco).
La seconda, appunto: la dilatazione (qui ancora umana, non ancora divina e trascendente come in Lorca), lo spleen, il naufragio nel mare del tormento. Lo splendido acquerello in riva all'oceano di Love from room 109, ma anche la lettera alla moglie e al figlio, l'altro Buckley, Jeff. Il materiale è lo stesso, il tappeto sonoro, le larghe pennellate della voce, malinconica e sperduta, i contorni sfumati ed indefiniti, la desolazione di un uomo vissuto in disparte, debole e indifeso, e proprio in quanto tale uomo.
Sleep inside my dreams tonight/ All I need to know tonight are you and my child/ Oh, is he a soldier or is he a dreamer?/ Is he mama's little man?/ Does he help you when he can?/ Or does he ask about me?/ Just like a soldier boy/ I been out fighting wars/ That the world never knows about/ But I never win them loud
Terza parte: la magia di Buckley. Il ritmo, il caos, la tribalità, la carnalità. Gypsy woman, la dimostrazione finale di quanto sia impossibile rinchiudere l'estro in inutili schemi. E' il capolavoro vero del disco, il trapasso dello stile di Buckley, avvisaglia di quello che sarà il navigatore delle stelle: è lo riempire le lunghe pause delle precedenti canzoni, l'accelerare il ritmo ed il tempo. E' il trascendere la figura del cantante tradizionale. Le pennellate della voce non sono più larghe, sono strette, brevi, pungenti. Ma non sono neanche più pennellate ormai. Sono graffi sulla tela, schizzi di colore, tagli alla Fontana. La voce non canta più, ma urla, stride, geme, abbaia, si contorce su sé stessa, cambia registro con allucinante disinvoltura, diventa essa stessa strumento. Il tappeto sonoro è quasi unicamente composto da percussioni. Il ritmo, tribale, ti avvolge, ti soffoca, ti prende, non ti lascia andare. E' una spirale che ti porta con sé in un vortice di stili, suoni, tecniche e generi. Non c'è via d'uscita. Bisogna seguire Buckley fino all'abisso, per poi uscirne purificati, con la romantica elegia di Sing a song for you.
In my heart is where I long for you/ In my smile I search for you/ Each time you turn and run away I cry inside/ My silly way, just too young to know any more/ In my world the devil dances and dares/ To leave my soul just anywhere/ Until I find peace in this world/ I'll sing a song everywhere I can
L'ultima parte del disco è un grande esempio di come fare musica edonista e profonda al tempo stesso: come parlare di sesso e amore senza essere superficiali. La carnalità della Gipsy woman, e poi la tenerezza nel dopo, quando Sing a song for you; i due lati dell'amore: fisico e spirituale, bestiale-animalesco e razionale-umano.
P.
1 commento:
Ottima recensione, prima o poi ascolterò l'album in questione, prometto.
Complimenti soprattutto per la scelta dei quadri!
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