Visto che non volete cose tristi, e io sono triste e sbattuto e solo, mi tocca ripescare un vecchio post da sistemare, così sistemo almeno questa, di cosa, dato che l'altra non ho idea di come fare.
Parliamo allora di quello che sto, in questo momento, ascoltando, cogliendo l'occasione per scrivere qualcosa in tono col titolo e l'indirizzo e la dedica del blog, cioè riguardante il grande Tim. Così mi passa il fine serata, e il tempo che (al tempo della prima stesura del post) è dilatato all'infinito dall'attesa di un messaggio che non arriva (non mi ricordo neanche quale, immagino da chi, non importa). Questo disco, intitolato postumamente come una delle canzoni più toccanti di Buckley padre, quella dedicata al figlio Jeff, è la testimonianza di un'incredibile performance tenuta alla Queen Elizabeth Hall il 10 Luglio del 1968, quando Tim aveva appena 21 anni. Ed è una testimonianza importantissima, grazie anche alla qualità della registrazione: la pulizia e la presenza del suono sono incredibili anche per il giorno d'oggi. E' una fortuna che una tale perla di concerto sia stata catturata in una tale perla d'incisione, per consegnarci uno tra i migliori album live di sempre. Ed è stata una fortuna per me aver iniziato ad amare Tim Buckley grazie a questo album. La carica emotiva che riesce a comunicare è incredibile. La padronanza tecnica dello strumento-voce è a dir poco allucinante. Due ore di concerto, nessuna pausa, virtuosismi vocali senza sosta, nessuna, dico nessuna, stecca, neppure minima. E dire che Tim era assistito da una band, diciamo, d'emergenza. Non c'erano i soldi necessari per portare in Europa tutti i membri della band che avrebbe pochi anni dopo suonato in Happy Sad e in Blue Afternoon. Così il bassista e il percussionista erano stati costretti a rimanere in America; il primo venne sostituito egregiamente da Danny Thompson (che riuscì a calarsi perfettamente nella musica nonostante solo pochi giorni di prove con gli altri membri della band), il secondo rimpiazzato da David Friedman e dal suo vibrafono, che riuscì a donare a tutte le canzoni quella cifra interpretativa che poi sarà largamente ripresa negli album successivi, in particolare in Happy Sad. Gli arrangiamenti delle canzoni sono necessariamente modificati, in molti casi migliorati rispetto alla versione studio. Il concerto inizia con la presentazione dell'artista effettuata da un fortunato spettatore, scelto nella prima fila. E termina con un'ovazione, interminabile, che si placa solo quando tutta la band sparisce per l'ultima volta dietro le quinte. E in mezzo tante, tantissime emozioni. Tutte cantate da una voce da angelo. A partire dalla bellissima e straziante versione di Phantasmagoria in two, passando per la delicata The Earth is broken, per i virtuosismi vocali (anche eccessivi) di Who do you love (ma non fini a sé stessi, come quelli, per dire, del figlio Jeff nella nonostante tutto bellissima cover di The way young lovers do), per la tensione di Pleasant street e della title track, con la seconda che si scioglie nell' Happy time che Tim impiega nella composizione; per il falsetto di Hi Lily, Hi lo e per infine terminare con la tranquilla ballata d'amore Once I was. Ma vorrei soffermarmi solo un attimo sul brano che precede la chiusura del disco, cioè sulla rilettura del classico country Wayfarin' stranger. Canzone che classicamente (ad esempio nella versione di Johnny Cash) è un'innocente ballata di tre minuti, simile a tante altre canzoni country. Canzone che nella versione 12corde+voce di Buckley si trasforma invece in un grande racconto epico, ed i brividi corrono forti lungo la schiena quando Tim riprende a cantare che lui è un povero straniero errante, dopo il medley con You got me runnin', tanta è la tensione che riesce a comunicare. E questa tensione si scioglie, per l'ennesima volta, con l'ultimo bis, Once I was, con un Tim che ci lascia chiedendo(ci)
And sometimes I wonder
Just for a while
Will you remember me?
Certo che ti ricordiamo, Tim.
P.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento