domenica 10 giugno 2007

Happy sad

Parliamo un po' di questo album di Tim, dato che l'ora è tarda per studiare la ricursione. Allora dedichiamoci a questa attività più piacevole e a me più congeniale. Devo confessare che non è il mio preferito. Gli metto davanti Lorca. Ma sono due album sotto certi aspetti simili. Più legato alla tradizione Happy sad, più proiettato verso il mondo allucinato e allucinante di Starsailor Lorca; entrambi tuttavia marcati dalla dilatazione di forma e canto e dalla preminenza del tormento interiore di Tim, espresso sia nel piano-testi (ad esempio Dream Letter, dedicata alla moglie e al figlio Jeff) che sotto il piano prettamente musicale (il canto allucinato e dilaniato di Lorca). Punto di transito tra il Buckley folk e il Buckley jazz, Happy sad esce nel 1968 ed è il terzo album del'ormai non più folksinger. Abbandonata ormai definitivamente la forma canzone-da-3-minuti (che tornerà con Starsailor, ma con ben altre velleità artistiche, e in certi episodi di Blue Afternoon), in quest'album sono presenti solamente sei tracce, nelle quali è forte l'influenza jazz (vedi l'introduttiva Strange feelin') sia negli arrangiamenti sia nella rinuncia ad imbrigliare canzoni (e talento) in superati schematismi. Nemmeno la formazione è più caratteristica/tradizionale. Sono presenti l'onnipresente 12 corde di Buckley, ma accompagnata da contrabbasso, congas, vibrafono, che contribuiscono a rendere liquida, marina l'atmosfera del disco. Un esempio su tutti è Love from room 109 at the Islander (from a pacific coast highway), e non solo per lo sciacquio delle onde del mare che accompagna tutta la canzone (e che si dice sia stato messo per coprire un fruscio difetto di registrazione, ma si rivela una delle idee più geniali del disco). Capolavoro, culmine dell'astrattismo ed esempio perfetto di quel tipo di canzone che è uno dei marchi di fabbrica di Tim: un tappeto sonoro, formato da chitarra, congas, vibrafono, sopra il quale la voce, come un pennello, che delinea tratti imprecisi, larghi, a volte solo abbozzati, di melodia e di testo. Per la prima volta una sua canzone supera la soglia dei dieci minuti, ne comprendiamo facilmente il perché: anche la pausa, il silenzio, l'esitazione divengono parte essenziale del discorso musicale, pariteticamente al suono ed al canto. Scaruffi parla di Happy sad come di un'ode al silenzio. E le pennellate sottovoce, un po' acquerello, un po' Van Gogh, un po' impressionistiche, si perdono leopardianamente nella quiete e nella calma, tra le onde dell'oceano, come una scialuppa alla deriva.


Possiamo legare le sei canzoni del disco in tre coppie. La prima: l'influenza jazz-folk, il legame con il passato (del Buckley folksinger) e il presente (del Miles Davis di Kind of Blue). In Strange feelin' l'influenza jazz è spiccata, ma tuttavia annacquata nello spleen. Spleen che si ripresentera più tardi in maniera ancora più massiccia, e che qui trova le sue prime avvisaglie.

I got this strange feelin’ deep down my heart/ I can’t tell what it is/ but it won’t let go/ it happens every time/ I give you more than what I have/ but now all I need is a little time to sing this song/ and I think we’re gonna find a way to lose this strange feelin’

Buzzin' fly, ritmata e spensierata, si allaccia fortemente al passato folk di Buckley, con chitarra e vibrafono in evidenza. Ma oltre a riallacciarsi al passato lancia la sfida al futuro: potremmo parlare di sublimazione dell'esteriorita folk, utilizzo di materiale folk (filtrato da jazz e funk) in una forma estesa e lanciata verso il futuro (ed anche verso la seconda parte del disco).


La seconda, appunto: la dilatazione (qui ancora umana, non ancora divina e trascendente come in Lorca), lo spleen, il naufragio nel mare del tormento. Lo splendido acquerello in riva all'oceano di Love from room 109, ma anche la lettera alla moglie e al figlio, l'altro Buckley, Jeff. Il materiale è lo stesso, il tappeto sonoro, le larghe pennellate della voce, malinconica e sperduta, i contorni sfumati ed indefiniti, la desolazione di un uomo vissuto in disparte, debole e indifeso, e proprio in quanto tale uomo.


Sleep inside my dreams tonight/ All I need to know tonight are you and my child/ Oh, is he a soldier or is he a dreamer?/ Is he mama's little man?/ Does he help you when he can?/ Or does he ask about me?/ Just like a soldier boy/ I been out fighting wars/ That the world never knows about/ But I never win them loud


Terza parte: la magia di Buckley. Il ritmo, il caos, la tribalità, la carnalità. Gypsy woman, la dimostrazione finale di quanto sia impossibile rinchiudere l'estro in inutili schemi. E' il capolavoro vero del disco, il trapasso dello stile di Buckley, avvisaglia di quello che sarà il navigatore delle stelle: è lo riempire le lunghe pause delle precedenti canzoni, l'accelerare il ritmo ed il tempo. E' il trascendere la figura del cantante tradizionale. Le pennellate della voce non sono più larghe, sono strette, brevi, pungenti. Ma non sono neanche più pennellate ormai. Sono graffi sulla tela, schizzi di colore, tagli alla Fontana. La voce non canta più, ma urla, stride, geme, abbaia, si contorce su sé stessa, cambia registro con allucinante disinvoltura, diventa essa stessa strumento. Il tappeto sonoro è quasi unicamente composto da percussioni. Il ritmo, tribale, ti avvolge, ti soffoca, ti prende, non ti lascia andare. E' una spirale che ti porta con sé in un vortice di stili, suoni, tecniche e generi. Non c'è via d'uscita. Bisogna seguire Buckley fino all'abisso, per poi uscirne purificati, con la romantica elegia di Sing a song for you.

In my heart is where I long for you/ In my smile I search for you/ Each time you turn and run away I cry inside/ My silly way, just too young to know any more/ In my world the devil dances and dares/ To leave my soul just anywhere/ Until I find peace in this world/ I'll sing a song everywhere I can

L'ultima parte del disco è un grande esempio di come fare musica edonista e profonda al tempo stesso: come parlare di sesso e amore senza essere superficiali. La carnalità della Gipsy woman, e poi la tenerezza nel dopo, quando Sing a song for you; i due lati dell'amore: fisico e spirituale, bestiale-animalesco e razionale-umano.

P.


1 commento:

DimDairwen ha detto...

Ottima recensione, prima o poi ascolterò l'album in questione, prometto.

Complimenti soprattutto per la scelta dei quadri!